Vincenzo Modica, nato a Mazara del Vallo nel 1919, durante la seconda guerra mondiale fu valoroso comandante partigiano in Piemonte ed esponente di spicco della Resistenza.
Ignorato in Sicilia, bistrattato nel suo paese d’origine, fu ammirato e celebrato nella regione che lo vide combattere contro i nazi-fascisti.
Figlio di Giovanni Modica, imprenditore agricolo:
"… come s’usava a quel tempo, aveva seguito gl’insegnamenti fascisti: era stato figlio della lupa, balilla e avanguardista e aveva sempre partecipato al sabato fascista. Nel 1937, vestito d’avanguardista, con pantaloni bianchi, camicia nera e timidi baffetti, era andato coi suoi amici a Trapani ad ammirare il Duce… Unico in famiglia (aveva due fratelli, Vincenzo e Nicola che aiutavano il padre nell’attività agricola e una sorella, Caterina) ad avere intrapreso gli studi universitari, il padre teneva molto che si laureasse: "La testa però l’aveva altrove. L’Italia compiva grandi gesta e ancora più grandi era chiamata a compiere. Mussolini dava lustro alla nazione e gli italiani dovevano seguire i suoi voleri. Vincenzo smaniava. Voleva arruolarsi. Un giorno, da Napoli dove studiava, fece una telefonata: “Papà… vogghiu partiri militari…” “Ma dunn’a iri figghiu me... Si studente… statti a Napoli… parti sulu quannu si chiamato!” “Papà… la patria chiama… i camerati in guerra soffrono e hanno bisogno di l’aiuto di tutti…” “Figghiu me… fai chiddu chi vuoi… ma dopo ‘un diri chi ‘un ti l’avìa dittu”. “Sta tranquillo papà… ‘un mi succeri niente… cercherò di fare l’ufficiale”.
Partì volontario e dapprima fu sottufficiale in Sicilia. Successivamente, nel 1942, entrò nella scuola di Pinerolo, arma di cavalleria e divenne ufficiale di complemento.
Lì avvenne l’incontro che avrebbe cambiato la sua vita: conobbe Pompeo Colajanni, il comunista siciliano da cui venne a conoscenza di una realtà ben diversa da quella che il fascismo raccontava.
Nel frattempo giungevano disastrose notizie sull’andamento della guerra. L’esercito del Duce lo aveva sotto gli occhi e i tedeschi erano alleati scomodi che non perdevano occasione per mortificare i soldati italiani. Per questi ed altri motivi, la fiducia che aveva avuto in Mussolini, gli venne meno.
L’otto settembre del ‘43, senza dubbi, disertò entrando nelle nascenti fila partigiane.
Pompeo Colajanni, diventato dopo l’otto settembre Nicola Barbato, il Comandante carismatico delle formazioni "Garibaldi" nel Cuneese, più anziano di Vincenzo di tredici anni, nutriva per lui un affetto quasi paterno.
Lo battezzò Petralìa per ricordare il paese di Sicilia a lui caro e perché vuol dire pietra liscia, un po’ com’era lo spirito di Vincenzo, tutto da formare.
Tutti scelsero un nome di battaglia per rendersi irriconoscibili ed evitare vendette nei confronti dei familiari.
“Iu addiventai Nicola Barbato” disse Colajanni.
“E chi ci trasi cu Colajanni?”
“E chi ci avi a trasiri? Chiù differente è, chiù difficile è risalire alla pirsuna originaria”.
“E iu comu m’avissi a chiamari?” chiese Vincenzo.
“Petralìa” rispose deciso Colajanni: “Petralìa sottana e soprana comu lu paisi vicino Palermo. Me patri mi ci purtò a respirare l’aria delle stalle dopo chi appi la pertosse”.
“Vabbene Petralìa! Ci staiu! Sarà assai difficile risalire alla mia famiglia a Mazara”."
Il grado di tenente nell’esercito fascista e il coraggio dimostrato nelle prime azioni di guerriglia, fecero si che Barbato gli assegnasse inizialmente il comando di un piccolo gruppo di partigiani affamati e disarmati:
Petralìa accumulava successi.
Aveva il rispetto dei compagni e la fiducia del comandante Barbato anche se, talvolta, tra i due avveniva qualche screzio.
Barbato era comunista. Petralìa non sentiva di dichiararsi tale.
Gli pesava la leggerezza d’essere stato fascista ed avere creduto in Mussolini. Aveva paura di ripetere l’errore assumendo posizioni troppo decise. Si rendeva conto di non avere la cultura politica di Barbato e pure, se i comunisti l’ammirava per coraggio e determinazione, era intimorito dall’idea dell’abolizione della proprietà privata in nome d’una società dove tutto era di tutti.
Non poteva fare a meno di pensare a suo padre e alla fatica che aveva sopportato per dare benessere alla famiglia.
“Compagno Petralìa ti vulissi parlari!”
“Pompeo, ma tu si sicuru chi iu sugnu compagno?”
“Picchì? Chi c’è di mali? Divintari comunista è un fattu scientifico, è la storia chi conduci a lu comunismo!”
“Sarà puru accussì ma a me patri iu ‘un ci lu dicu: lassa i possedimenti chi lu popolu l’avi a spàrtiri… picca picca li pistolettati chi ancora ‘unn’haiu pigghiatu mi li spara iddu”.
“Vabbene, ne riparleremo… ho una novità pi tia”.
“Di che si tratta?”
“Ti nomino comandante del distaccamento partigiano di Bagnolo Piemonte!"
Il comandante, Petralìa fu coraggioso senza mai essere spavaldo. Partecipò a moltissime azioni rischiando la vita in prima persona e ben presto divenne il vice di Colajanni.
Alla fine del 1944 venne incaricato di portare ordine tra le litigiose bande partigiane in Val Luserna e nello svolgimento della missione fu ferito gravemente:
"(Petralìa) Sentì le voci dei tedeschi e dei fascisti, ma non li vide. Si mise a correre per il viottolo con tutte le forze che aveva nelle gambe e con tutta l’aria che teneva nei polmoni.
Correva disperato, affondando i piedi, speranzoso di farcela.
Mano mano s’allontanava sentiva la certezza della salvezza.
Era quasi giunto alla fine del campo, ancora pochi metri e sarebbe cominciato il bosco, quando sentì un dolore lancinante sulla coscia destra. Non se ne curò.
Si spaventò invece quando sentì il crepitio della mitragliatrice e i fascisti intimare: “Altolà… fermati!”
Corse più forte e s’accorse che strisciava la gamba. Sentì un altro dolore stavolta sul braccio sinistro così acuto che gli tolse il respiro.
Si voltò indietro ed ebbe una fitta sul petto.
Fermò la sua corsa. Barcollò e cadde fuori del viottolo, sprofondando supino nella neve. Prese il respiro, colse un po’ di forze che sentiva di perdere, sollevò con fatica la testa, vide intorno a sé un muro bianco che alla base si colorava di rosso. Gli venne in mente che in Sicilia non l’aveva mai vista quella neve ma il sangue si era sempre sparso.
Sentì bombe a mano scoppiargli intorno con un rumore sordo mentre la neve si sollevava nell’aria e gli cadeva addosso.
Le voci dei fascisti si fecero vicine. Dal fondo del buco vide le loro facce come in un film.
Come una faccenda che non gli interessava. Poi perse i sensi."
Sfuggito rocambolescamente alla cattura e sopravvissuto alle gravi ferite, dopo qualche mese, non del tutto guarito, ritornò al comando dei suoi uomini e con loro partecipò alla liberazione prima di Chieri poi di Torino.
Finiti i combattimenti, il valore di Vincenzo Modica fu riconosciuto: il comandante Petralìa, il 6 maggio del ’45, nella piazza Vittorio Veneto di Torino, ebbe l’onore di essere l’alfiere porta bandiera della manifestazione conclusiva dell’esperienza partigiana:
“Quando piazza Vittorio Veneto, dall’esedra verso piazza Castello alla scalinata della Gran Madre, fu colma, da via Po arrivò il picchetto d’onore. Ne facevano parte sei partigiani rappresentanti le varie organizzazioni. Sfilavano tre davanti e tre dietro. Quelli dietro avevano la tuta mimetica, erano senza cappello, i capelli lunghi. Davanti invece, due avevano il cappello e un terzo no. I due ai lati, uno senza cappello, esibivano il fucile mitragliatore. Nel mezzo marciava un uomo col capo coperto, la mano sinistra sporgeva da sotto la giacca militare aperta e s’intravedeva una fasciatura che reggeva il braccio. Era alto l’uomo. Il viso emaciato, scalfito dalle sofferenze che portava in corpo. Aveva baffi e barba incolta. I baffi, spessi, non erano più curati come quelli d’Amedeo Nazzari. I sei giunsero davanti il palco d’onore. La vedova del generale Perotti, affiancata dalla vedova di Gino, il comandante della Brigata Matteotti e dalla fidanzata del martire Duccio Galimberti, porse la bandiera tricolore ripiegata al generale Trabucchi che, con le palme delle mani in alto, la prese e la consegnò al comandante Petralìa, mentre la banda intonava le note dell’Inno del Piave.
L’uomo la pigliò con la mano sana aiutandosi appena con quella ferita e la baciò. Aiutato dagli altri la montò sull’asta porta bandiera. Al primo sventolio la piazza esplose in un urlo di gioia. Il picchetto restò in posizione mentre si susseguirono i discorsi e fu celebrata la messa. Finita la funzione, il picchetto passò in rassegna le formazioni partigiane. Dopo il passo d’oca dei nazisti, il saluto alla romana dei fascisti, il passo sincrono d’americani ed inglesi, ora i vincitori si muovevano goffi e stonati. L’alfiere reggeva fiero la bandiera e piangeva mentre attraversava la piazza davanti i partigiani sugli attenti e l’autorità.
Piangeva per i compagni morti e quelli che non avrebbe più rivisto, per gli amici, per i suoi genitori di cui nulla sapeva e che nulla sapevano di lui, l’amico Accardi, lo zi’ Turi, per chi l’aveva accudito negli ultimi mesi di convalescenza. Pensava ad Ulisse, Gavetta, Jimmy il francese, Topolino, Leo Lanfranco, Genova, ai morti che non conosceva. Pensava pure alle madri e le mogli di quei ragazzi che aveva combattuto e ucciso. Quei visi giovani e meno giovani che aveva visto sgomenti fronte alla morte. Pensava all’amico capitano fascista di cui non aveva voluto più sapere. Si chiedeva, per la prima volta, com’era stato capace, lui, picciotto di mare, che coglieva ricci e pescava polipi, ad affrontare tanto orrore. Tutto ciò scorreva davanti i suoi occhi che nulla vedevano coperti dalle lacrime. Pompeo Colajanni non distoglieva lo sguardo dal suo pupillo. Non più l’ufficialotto un po’ vanesio e inconsapevole ma l’uomo che meglio di tutti, per il suo coraggio e abnegazione, proveniente dal più lontano paese del Sud Italia, rappresentava il paese libero e i numerosissimi partigiani meridionali, lontani dalla loro terra, che avevano contribuito alla lotta di liberazione. Il comandante Petralìa, Vincenzo Modica da Mazara del Vallo, fu l’alfiere della manifestazione." Conclusa la guerra, Vincenzo tornò a Mazara. Ben presto, però, si rese conto che la sua vita non era lì. Il suo posto era altrove, dove aveva combattuto e versato il sangue: “La testa l’aveva in Piemonte, dove c’erano i compagni con i quali aveva condiviso la vita e la morte, il cibo e la fame, il gelo e l’arsura, la gioia. Dopo che il mezzo uscì, non n’aspettò un altro. Chiuse il registro e andò dal padre: “Papà minni vaiu… torno a Torino!” Giovanni smise le sue faccende, lo guardò e rispose: “Si figghiu mio. Minn’addunà chi sta vita ti veni stritta. Si tu ‘un vò, ‘un ti pozzu costringiri a stari. Diccillu a la mamma e fa chiddu chi ha fari”.”
Ritornò in Piemonte e nonostante la lontananza, restò profondamente legato al suo paese:
In Sicilia tornava sovente.
Per trovare i genitori, per la loro morte, per motivi d’interesse, per trovare i fratelli o la sorella, per vedere la sua terra.
Mai ha chiesto qualcosa, mai ha preteso.
Portò alla biblioteca comunale i suoi interventi in occasione delle manifestazioni celebrative che tutti gli anni si svolgevano a Montoso o nei paese vicini.
Tempo dopo ci ritornò e scoprì che gli scritti non erano a disposizione degli studiosi, anzi non si sapeva neppure dove fossero.
Mentre veniva nominato cittadino onorario in diversi comuni del Piemonte e, invitato, partecipava a ricorrenze e celebrazioni, a Mazara ...